Flemma a Washington
La teoria di Obama alla prova dei fatti

Anche se il presidente Obama ha riconosciuto che l’ideologia estremista dell’Isis, il movimento quadista in Iraq, rappresenti “una minaccia nel medio e lungo termine”, Stati Uniti ed Onu sembrano relativamente tranquilli. Entrambi confidano che questo fenomeno, nonostante sia stato capace di conquistare centinaia di chilometri quadrati fra Siria ed Iraq, sia destinato a sgonfiarsi. Tutti gli errori sono stati attribuiti al presidente iracheno Al Maliki. E’ stato il governo di Baghdad a respingere ogni ipotesi di coinvolgimento sunnita ed ad alimentare così l’estremismo. Ora si tratta di evitare di far precipitare ulteriormente la situazione a vantaggio degli sciiti, puntando a recuperare il dialogo con i sunniti. Nei prossimi mesi verrà messa alla prova della teoria di Obama e Ban ki Moon, convinti di risolvere i problemi senza dover ricorrere all’intervento militare diretto. Per cui, anche se l’Isis sta destabilizzando l’Iraq e la Casa Bianca riconosce che questa destabilizzazione potrebbe allargarsi ad alcuni Paesi alleati, come la Giordania, ad esempio, ci si aggrappa all’idea che gruppi così violenti ed estremisti, anche se prendono il controllo del territorio, “dopo un po’” vengano respinti dalla popolazione locale. Non che si disponga di precedenti cui confortarsi. I talebani, violenti e sanguinari, piegarono le popolazioni locali senza alcun appello. Per cui quanto tempo occorrerà, prima che a Mosul e Falluja vengano respinti gli estremisti? America e Onu non sembrano prendere molto in considerazione il fenomeno migratorio e la feroce repressione del dissenso, che pure altererà i valori nelle zone conquistate. E’ vero piuttosto che la maggioranza sciita del resto dell’Iraq non consentirà all’Isys la stessa penetrazione avvenuta nelle aree sunnite in Iraq, ma che dire della maggioranza sunnita della Siria, o, appunto, della Giordania? Quale ruolo svolgono poi gli altri paesi arabi, dal Qatar agli Emirati, ai sauditi, nei conflitti in corso? Sono queste tutte le domande con cui bisognerà confrontarsi per capire esattamente quali siano i margini di ricomposizione di un tessuto nazionale che sia in Siria che in Iraq, appare oramai ulcerato. Può darsi che sia meglio evitare un coinvolgimento diretto sul campo americano, se non altro per non infiammare ulteriormente gli animi. Certo che la presenza di Kerry al Cairo ed il sostegno finanziario ai militari che hanno buttato a mare il governo del presidente Morsi, la dice chiaramente su come l’America intende restare vigile e su chi scelga di sostenere.

Roma, 23 giugno 2014